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Suakin

Questo brano è tratto dal libro fotografico di Andrea Muratore, Vento d’Africa, che trovi (e puoi acquistare) qui. Andrea ha gentilmente concesso l’autorizzazione a pubblicare il brano per i nostri ospiti.

Siamo pronti a salpare per la crociera subacquea, ma il comandante ci chiede di pazientare, mancano ancora tre ospiti.

L’aereo in arrivo da Khartoum è in ritardo e ci rassegniamo ad aspettare.

Finalmente arrivano sul pontile Folco Quilici e i fratelli Tamagnini, in Sudan per ultimare fotografie e riprese che faranno da corollario al libro di Folco “Il mio Mar Rosso”.

Tra una immersione e l’altra, Folco mi ha parlato a lungo della leggenda che narra dei Cavalieri Templari in rotta dalle crociate; in fuga lungo le sponde del Mar Rosso sembra siano sbarcati a Suakin con la più preziosa reliquia di tutta la cristianità, l’Arca della Santa Alleanza.

Il sacro cimelio sarebbe stato affidato ai sacerdoti coopti che l’avrebbero celato per sempre all’interno di una cripta segreta di una chiesa ipogea in Etiopia. Le settimane scorrono veloci tra immersioni, manutenzione delle attrezzature fotografiche e racconti avventurosi.

Prima di rientrare in Italia, decidiamo di andare a visitare l’antica città abbandonata.

Il vecchio Peugeot 504 ci lascia nel centro di El Geif, il villaggio dei poveri, che sorge alle porte di Suakin: appena 200 chilometri ci separano da Port Sudan, ma il balzo storico e culturale è subito evidente.

Nonostante l’eterno embargo, le sommosse civili e religiose spesso avallate da capi di Stato compiacenti, la guerra del Darfur finanziata dai cinesi, le persecuzioni delle tribù dell’interno, i campi d’addestramento degli estremisti islamici presenti un po’ ovunque, il Sudan odierno inizia lentamente a emergere dall’isolamento che ha relegato il più vasto stato Africano al ruolo di fanalino di coda fra i Paesi del terzo mondo.

El Geif dunque è la porta d’ingresso per raggiungere la mitica Suakin.

Poche case di mattoni e fango essiccato dentro le quali la vita continua a scorrere secondo ritmi antichi, lenti e monotoni.

Tagliata fuori dalle rotte commerciali moderne, la città è rimasta oggi punto di sosta per le carovane dei beduini che attraversano il Paese per raggiungere i mercati dell’Eritrea, dove acquisteranno i dromedari che saranno poi rivenduti al Cairo.

Un nugolo di bambini vestiti con pochi stracci ci accompagna tra le bancarelle del mercato dove spiccano i colori accesi delle stoffe e alcuni oggetti di artigianato: con un po’ di fortuna è possibile imbattersi in qualche raro gioiello antico, testimonianza di un prospero passato.

Raggiungiamo la Jazirah, l’isola su cui sorge la nostra meta, attraverso l’istmo artificiale che la collega a terra: per entrare attraversiamo la Gordon’s Gate, la porta fatta costruire dagli Inglesi nel 1877, un varco nelle imponenti mura erette in tempi antichissimi a difesa di Suakin.

La storia della città si perde nella notte dei tempi, probabilmente il primo nucleo fu costruito all’epoca dei Faraoni Neri del Regno di Kush; è però con l’avvento dell’Islam, nel 641 D.C., che Suakin assunse un ruolo importante nella Storia: da piccolo villaggio abitato da tribù Hameg a principale porto egiziano del Mar Rosso. Arabi, Egiziani, Turchi, Portoghesi, Inglesi, Ottomani, Yemeniti, pirati alla scoperta della nuova rotta del Capo di Buona Speranza, mercanti di schiavi e ancora oggi contrabbandieri: tutti hanno trovato in questo porto naturale un rifugio sicuro.

La costa del Sudan, protetta da barriera e isole coralline, è costellata da ampie insenature (marse) che penetrano nel deserto formando veri porti naturali; le marse, fin dai tempi più antichi, costituivano un perfetto riparo per le feluche dei pescatori o per i sambuchi dei mercanti.

La città sorge su una piccola isola all’interno di un’ampia baia collegata al mare aperto da un canale navigabile di due miglia.

E’ sotto la lunga dominazione turca che Suakin conobbe un notevole impulso e il periodo di maggior floridezza: fu ampliato il porto, facoltosi mercanti costruirono splendidi palazzi e si edificarono ampi magazzini con blocchi di corallo strappati al mare, ove poter stivare le merci provenienti dalle Indie; tutto ciò è ancora ben evidente in mezzo al deterioramento generale.

A causa del totale abbandono che dura ormai da più di un secolo, per la forza dei venti provenienti dal mare, per le incessanti tempeste di sabbia del deserto e le scarse ma violente e improvvise piogge, la città si sta lentamente e inesorabilmente sgretolando. Poche sono le costruzioni ancora identificabili tra i cumuli di macerie.

Oltre ai palazzi, dove un tempo si discuteva dell’apertura di nuove rotte commerciali, si progettavano imprese piratesche o si ammassavano immensi tesori e merci di ogni tipo, svetta, esattamente al centro della città, la torre del minareto con a fianco l’antica moschea.

Mentre ci avviciniamo, incontriamo una donna che ci viene incontro tenendo per mano due bambini. Ci accolgono con un grande e sincero sorriso, forse con la speranza che questi nuovi conquistatori apparsi dal nulla tra le rovine possano restituire a Suakin almeno un po’ del suo perduto splendore.

Lontano, a Ovest, la foschia proveniente dal deserto sta gradualmente velando la luce del sole. Le ombre con estrema lentezza si allungano andando a incontrare il mare solcato dai sambuchi.

Dall’alto delle mura diroccate alcune cornacchie si levano spaventate, turbinio di ali nere come la notte e rochi richiami segnalano alla città abbandonata la nostra partenza.